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Giovedì, 18 Luglio 2013 16:10

Thom Yorke e l'antico problema della remunerazione dei musicisti. In evidenza

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Premessa/disclaimer: ciò che segue prende spunto da un fatto di cronaca, per altro piuttosto marginale, per allargare la discussione ai “massimi sistemi”. Questo post non pretende di esaurire né tanto meno di risolvere la complessità spropositata dell'argomento di cui si parla, piuttosto vuole sollevare aspetti di un problema che troppo spesso resta opaco: come e perché guadagnano i musicisti. Per non peccare di universalismo ipocrita e per chiarire la mia posizione sia detto che io stesso sono un musicista “di professione” in un ambito quasi del tutto fuori mercato, che sopravvive, in qualche parte d'Europa (quasi per nulla in Italia) grazie a finanziamenti pubblici, università o fondazioni culturali private: la musica di “ricerca” (anche se, sotto sotto, avrei voluto essere una consumata rock star). Il mio punto di vista (come quello di chiunque altro d'altronde) è perciò parziale e limitato. Per finire non voglio accusare né assolvere nessuno. Ciò detto, veniamo a noi.

Il fatto è il seguente: Thom Yorke, storico cantante e anima dei Radiohead, ha ritirato i brani prodotti nell'ambito dei suoi progetti solisti (The Eraser, Atom for peace) dal servizio di streaming musicale svedese Spotify, da pochissimo giunto anche in Italia. La motivazione addotta sarebbe legata alle condizioni di pagamento incredibilmente basse che la piattaforma di streaming sarebbe in grado (o avrebbe scelto) di pagare agli artisti. Per dare dei numeri che altrimenti non conosco, cito la stima fatta da Sam Duckworth, che per il suo sesto album solista, a fronte di 5000 play su Spotify avrebbe maturato la lauta cifra di 20 £ in royalties. La scelta di Thom Yorke, a sua detta, sarebbe non tanto motivata dalla difesa dei suoi propri compensi, (diventati nel tempo cifre a parecchi zeri, con milioni di dischi venduti) quanto un atto di giustizia e solidarietà per tutti gli “artisti emergenti”, che non potendo contare su album più “stagionati” alle spalle, si trovano così ad avere quasi nulla da questi servizi come compenso per gli album appena prodotti a caro prezzo.

La posizione di Yorke ha avuto eco dal suo produttore e compagno di avventura negli Atom for peace, Nigel Godrich, che dice, commentando il tardivo ingresso dei Pink Floyd nel servizio: "Registrare nuova musica ha bisogno di fondi. Alcuni dischi possono essere fatti in un computer portatile, ma altri hanno bisogno di musicisti e tecnici specializzati. Il catalogo dei Pink Floyd ha già generato miliardi di dollari per qualcuno (non necessariamente la band), per cui metterlo ora su un sito di streaming ha senso. Ma se la gente avesse ascoltato Spotify invece di comprare i dischi nel 1973 dubito molto che The Dark Side [of the moon, album uscito quell'anno che ha venduto centinaia di milioni di copie] sarebbe stato fatto. Sarebbe stato semplicemente troppo costoso". *

Le dichiarazioni hanno ovviamente scatenato le reazioni più varie nel campo della musica, la solidarietà di alcuni artisti (Paul Mc Cartney, Kieran Hebden AKA Four Tet), la replica del servizio svedese e una serie completa di commenti aciduli dal mondo dell'industria, di cui il più interessante ai fini della discussione, mi pare quello di Stephen Street, produttore dei Blur, che commenta così le parole di Yorke: “E' alquanto ipocrita per Thom Yorke dire che Spotify non funziona per i nuovi artisti. E' esattamente la stessa cosa che ho detto io quando i Radiohead hanno messo il loro album disponibile gratuitamente/pay-what-you-want qualche anno fa” e ancora su questo esperimento di vendita diretta: “Si adatta perfettamente a superstar con 10 anni di investimenti EMI alle loro spalle. Non ha aiutato affatto i nuovi artisti emergenti. Mandò il messaggio sbagliato che la musica non ha alcun valore. E ora ti ha morso sul culo Thom!”. **

Questi i fatti, ora con l'interpretazione viene la parte più controversa. Diciamo che la complessità spesso richiede semplificazione e la semplificazione è sempre parziale e incompleta. E in questa storia tutti semplificano parecchio, me compreso, anche se cercherò di presentare tre problemi semi-nascosti limitandomi a suggerire il mio punto di vista. Spesso sarò un pò idealista forse, ma non posso farci molto, il realismo a ogni costo mi rattrista. Personalmente ho applaudito ai Radiohead molte volte nella loro sfolgorante carriera prima musicalmente per come hanno, all'apice del successo, abbandonato molti cliché della pop music, dimostrando il coraggio di voler fare musica di qualità fuori dagli angusti margini del pop, poi per come si sono inventati un modo nuovo di fare e vendere dischi, strappando questa prerogativa alle etichette e cominciando a farsi responsabili delle proprie scelte “politiche”. Ora credo servirebbe solo andare un pò più in fondo nella critica, rendendosi conto che per gli “emergenti” i problemi a ben guardare sono parecchio più seri delle basse royalties di Spotify e le cose da fare, a cui “big illuminati” potrebbero aprire la strada, sono molte. Mi piacerebbe sollevare qui tre questioni:

1. Il modello di business: Thom Yorke parla di modello di business inadatto agli emergenti in relazione a Spotify, perché questo paga troppo poco per “guadagnare”. Fatto salvo che sono assolutamente convinto che poter vivere dignitosamente dovrebbe essere un diritto di tutti, cattivi musicisti compresi, e che quello del musicista dovrebbe essere un lavoro, con tutta la dignità e responsabilità “artigiana” che questo comporta, siamo davvero sicuri che nel parlare di “lavoro del musicista” ci si debba sempre riferire al solo vendere dischi, accettando implicitamente che i suoi introiti debbano derivare da questo o da altri aspetti connessi come le radio? Questo modello di business, che è stato solo banalmente tradotto in digitale, è stato inventato dalle etichette nel momento in cui queste ebbero qualcosa da vendere, e sposato dalle radio che ebbero così qualcosa da “prendere in affitto”. Ciò ha generato una distorsione del mercato della musica, che ha fatto per una trentina d'anni del disco l'oggetto di un feticismo insano (che per altro chi scrive ha alimentato con soddisfazione) e ha dato alle radio, forti di grandi capitali a disposizione derivanti dalla pubblicità, il potere di arricchire disgustosamente pochi. Se la musica è (giustamente) un lavoro (e dico "se" solo perché guardando certe figurine di cartone del mondo dello spettacolo a volte mi vengono i dubbi), perché i musicisti non si concentrano nel pretendere tutele degne dell'orgoglio operaio, invece che partecipare a questa farsesca rincorsa ad un successo tanto individuale quanto effimero, più simile ad una lotteria che non a una professione? La musica, come tutto il lavoro intellettuale in genere, non può essere assimilata ad una merce qualsiasi da pagare “tanto al chilo”. Produrre e vendere dischi non costituisce l'essenza del lavoro di un musicista (che come è noto si occupa di suonare, scrivere o improvvisare musica). I dischi sono un mezzo di diffusione fra mille, valido, utile, piacevole, ma limitato e storicamente connotato, e prima il musico smetterà di ragionare in termini di successo discografico e comincerà a farlo in termini di professionalità e diritti, prima il mondo della musica si libererà dalla zavorra di un industria dei sogni ormai elefantiaca, senza altro fine che un profitto insostenibile e nessuna etica, e di tutta la sua meschina retorica del successo. Questo binomio popolarità/valore va ribaltato, e al suo posto la musica deve saper trarre valore dal suo essere lavoro, fatica, preparazione e “studio” in senso ampio. Il successo, specialmente quando viene raggiunto attraverso catapulte mediatiche prossime al lavaggio del cervello, non garantisce la minima corrispondenza tra talento e fama e questo è già di per sé molto più grave delle tariffe di Spotify. Se poi si aggiunge il fatto che il prodotto venduto è il musicista stesso più che la sua musica, penso che qualsiasi critica che non voglia guardare nella direzione di costruire per tutti un'alternativa davvero equa a questo costume sia quantomeno fiato sprecato.

2. I sistemi di produzione evolvono. La musica è esistita come bene “immateriale” per molto più tempo dei supporti commerciali di registrazione e diffusione, che al massimo ne rappresentano un'incarnazione fra le molteplici, e sicuramente sopravviverà all'eventuale estinzione dell'attuale mercato fonografico o radiofonico, materiale o immateriale che sia, così come è sopravvissuta all'estinzione quasi totale del mercato delle partiture o degli organetti a nastro perforato. Parlare di morte della musica per il fallimento di una linea industriale è ideologia allo stato puro. Che se ne preoccupi un produttore non mi stupisce, che se ne preoccupino i musicisti è invece un segnale inquietante di quanto siamo tutti a mollo nell'ideologia dominante. Senza contare le implicazioni “artistiche” del dare per scontata la sovrapponibilità di musica e suo supporto, quando interpretazione e riproduzione coincidono, discussione che purtroppo esula dalla portata di questo post. Ciò che dice Nigel Godrich in merito a Spotify è sicuramente vero per i Pink Floyd di trent'anni fa, elemento di punta di un'industria intelligente e all'avanguardia sui tempi, ma non ha senso oggi quando l'industria discografica investe sempre meno soldi negli artisti, finanziando solo prodotti che con la musica hanno davvero poco a che fare. Oggi le grandi (sempre più grandi) corporation dell'entertainment sbarrano la strada a qualsiasi intento artistico di rispetto, tanto che, tra etica ed estetica la musica di qualità oggi va cercata al novantanove per cento nel mondo delle piccole etichette e dell'autoproduzione. The Dark Side of the Moon (che sia chiaro è tra i miei dischi preferiti di sempre) è stato figlio di un momento storico ben preciso legato a una tecnologia costosa e geograficamente individuata, ad un'opulenza economica che aveva il paio in un mercato vasto e un benessere diffuso (perlomeno in quella stessa area geografica).
Tra l'altro, sia detto di passaggio, siamo sicuri che sia davvero giusto che a distanza di quarant'anni i Pink Floyd (come i Beatles o altri) e soprattutto tutta quella rete di elementi parassitari connessi, continuino ad esigere un obolo dal pubblico che li ascolta, o potremmo pensare che la società li abbia già ampiamente ripagati del loro contributo (per non dire di peggio)? Ad ogni modo, il rilievo di Nigel è doppiamente superficiale: da un lato perché qui finge di non sapere che con le regole dell'attuale sistema economico per far si che l'industria sia interessata a produrre artisti emergenti, questi devono “garantire” ingentissimi ritorni (ancor più ingenti dei compensi agli artisti stessi), e in secondo luogo perché la sua critica gli può essere girata contro (come ha prontamente fatto Stephen Street), parafrasandola, nella forma “Ma se la gente avesse avuto la possibilità di scegliere di non pagare niente anche nel 1973 dubito molto che The Dark Side sarebbe stato fatto.” Il punto è a monte di quanto siano costati i capolavori del passato (dubito che oggi qualcuno avrebbe costruito San Pietro o la piramide di Cheope); il problema vero è che il valore di un'opera non deriva dal suo costo e restare ancorati a questa visione miope e ideologica è altrettanto pericoloso. Che ci piaccia o meno oggi la tecnologia produttiva e distributiva è tale da rendere obsoleta, a essere ottimisti, quando non dannosa, la presenza delle corporation tra i piedi degli “emergenti” e questa è potenzialmente una grande ricchezza in termini di democrazia e indipendenza dell'arte. I Radiohead hanno capito nel 2007 questa cosa, ma, come tutti gli altri, non hanno fatto il passo successivo, investendo un po' di quelle risorse accumulate in anni più favorevoli per creare reti alternative di diffusione della nuova musica che valessero per altri oltre che per sé stessi, liberando di fatto i piccoli dal giogo dei grandi interessi industriali. Magari cosa buona sarebbe stata quella di coinvolgere le istituzioni pubbliche in questa denuncia illuminata, per renderle più forti davanti all'industria e costringerle a prendere posizione, ad esempio nel progetto di costruire audioteche virtuali, sorta di versioni “commons” di Spotify, che comprino la musica e la mettano a disposizione di tutti come si fa per l'arte visiva, per la letteratura e così via o avviare, visto che li ha riguardati da vicino, una seria discussione sul copyright in relazione alle pratiche artistiche derivative come i remix.

3. Diritto degli artisti e diritto del pubblico. C'è un ultimo aspetto nella questione che ho sfiorato sopra. In questo caso stiamo parlando del diritto di un autore ad aver tutelato il proprio lavoro. A questo diritto però si contrappone il diritto del pubblico ad accedere a questo corpus di “oggetti” immateriali che contribuiscono alla cultura di tutti. (So che è difficile crederlo finché il problema si concentra sulle canzoni di Britney...) Questa contrapposizione tra le due parti è espressa chiaramente dall'articolo 27 della dichiarazione universale dei diritti umani che recita:

“Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.             Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.”

Nel caso di servizi come Spotify si è provato a costruire un'alternativa legale a basso costo allo scaricamento “illegale” dai programmi di scambio peer to peer. Chi scrive è fermamente convinto che, fatto salvo il lucro e la doverosa attribuzione di “paternità”, per dare forza appieno al suddetto articolo, i contenuti artistici e culturali dovrebbero essere disponibili a tutti gratuitamente o quantomeno a un costo ragionevole, che non dovrebbe avere niente a che fare con una stima presunta del grado di “favore” che un determinato prodotto incontrerebbe da parte del pubblico, quanto al massimo essere un contributo per garantire un'esistenza dignitosa al musicista. Ma nel caso dell'industria musicale sappiamo molto bene che non è questo il caso, dove strumenti a mio avviso poco sensati, come il sistema del pagamento delle royalties a minuto o a campione, che favoriscono i grandi e penalizzano tutti gli altri, sono però difesi a oltranza o ignorati maliziosamente, solo perché garantiscono monopoli e profitti spropositati a pochi. Spotify non risolve minimamente i problemi di cui si è parlato, offre però almeno una timida risposta al possibile diritto di tutti di “godere delle arti”. Siamo d'accordo che è una risposta inadeguata e del tutto profit-oriented, ma direi che le cause della sua inadeguatezza sono a monte, e sul quel monte Thom Yorke e Nigel Godrich ci sono nati e cresciuti e se non comprendono la necessità di azioni radicali per ristabilire un'eticità nel produrre e distribuire musica, temo che nelle loro parole (altrimenti sensate) contro lo streaming ci sia della malafede. Ritirare la propria musica da uno dei pochi sistemi che danno più al pubblico che agli “artisti” (almeno limitatamente alle informazioni che è possibile ottenere per ora), sicuramente non aiuta i piccoli a trovare alternative a tutti i limiti del sistema discografico presente, così come mettere il proprio disco a disposizione di tutti con una libera offerta è un'azione in astratto validissima, ma funziona solo perché l'artista in questione ha alle spalle risorse e economiche e un vasto bacino di fan per poterselo permettere. Per renderlo un sistema efficace mancano ancora diversi passaggi, e non contribuire a completarli, rischia davvero di far apparire una coraggiosa ma isolata scelta individuale solo come un'ulteriore ipocrita campagna di marketing.

* Traduzione mia, segue la dichiarazione originale: "Making new recorded music needs funding. Some records can be made in a laptop, but some need musician[s] and skilled technicians. Pink Floyd's catalogue has already generated billions of dollars for someone (not necessarily the band) so now putting it on a streaming site makes total sense. But if people had been listening to Spotify instead of buying records in 1973 I doubt very much if Dark Side [of the Moon, Pink Floyd's record-breaking album released that year which sold hundreds of millions of copies] would have been made. It would just be too expensive."

** Di nuovo traduzione approssimativa mia, l'originale è: “Bit rich coming from Thom Yorke that Spotify doesn't work for new artists. It’s exactly what I said when Radiohead made their album available for free/ pay what you want a few years back.” “Suits superstars with 10 years of EMI investment behind them. It didn’t help new upcoming artists at all. Gave the wrong message that music had no value. It’s bitten you on the arse Thom!"

Letto 19134 volte Ultima modifica il Lunedì, 17 Marzo 2014 18:58

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