La storia è ormai nota, ri-raccontata con il solito mix di distacco e superficialità da giornali e televisioni. Aaron Swartz, geniale personalità del mediattivismo, coautore tra le altre cose di RSS e Creative Commons, a ventisei anni ha scelto di togliersi la vita, probabilmente schiacciato dal peso delle accuse legali a lui rivolte per aver “rubato” nel 2011 un gran numero di articoli scientifici dal network JSTOR. Accuse che, qualora fossero state confermate dal processo venturo, avrebbero potuto portarlo a una pena fino cinquant’anni di reclusione e a una multa di milioni di dollari.
Esiste certamente un livello privato straziante in questa storia, così come si potrebbero dire molte cose sugli aspetti controversi di tutta la vicenda, per i quali invito a leggere i contributi di Lessig, suo caro amico; la sproporzione tra danno e pena suggerita, la condivisibilità o meno dell’azione in sé e così via, ma è sul livello politico che vorremmo concentrarci, perchè crediamo imponga grande attenzione. Non è in questione “solo” un dramma personale, ma al contrario è un episodio che prende significato nel quadro più generale della guerra tra una certa idea di libertà, giustizia, partecipazione e democrazia, legata alla rete e la cultura politica attualmente al potere.
La sua storia personale rappresenta in modo esemplare il modo in cui una giustizia miope e corrotta, al servizio di un potere interessato alla conservazione ad oltranza di un modello di consumo ormai esausto, sia usata per colpire un’intera “visione del mondo” antagonista, percepita come nemica, fuorilegge e soprattutto in malafede. Questo atteggiamento è evidente nelle parole dell’avvocato di stato degli USA Carmen Ortiz, che ha giustificato i capi di accusa sostenendo: "rubare è rubare, non importa se si sta usando un comando su un computer o un piede di porco, e se si entra in possesso di documenti, dati o dollari”.
La sua fu invece un’azione talmente ingenua da sembrare opera di un bambino. Copiare articoli accademici, di per sé virtualmente senza alcun valore commerciale, anche se coperti da copyright, normalmente raggiungibili solo in un contesti istituzionali e liberarli sulla rete, per tutti a cui è corrisposta una pena esemplare e vistosamente sproporzionata, per un reato “senza vittime”, come è stato definito dalla sua stessa famiglia, tanto che persino JSTOR, la parte lesa, avrebbe deciso di ritirare l’accusa contro Swartz, in cambio della riconsegna dei materiali sottratti. Ma questo non ha fermato il corso della giustizia americana. Nel quadro di una sempre più nervosa e irrazionale guerra alla libertà della rete, ora che il progetto di rendere internet sempre più un disciplinato supermercato digitale sembra scontrarsi con ostacoli sempre maggiori nella società civile, anche proprio grazie all’opera di Aaron, è probabilmente sembrato necessario dare una lezione ai movimenti, imputando un singolo, tanto intelligente quanto fragile, di ben tredici “felonies”, ovvero reati gravi, che per la legge americana includono tanto lo stupro, l’omicidio, quanto la frode informatica e l’infrazione del copyright.
E’ in questa luce che Aaron diventa però il simbolo della lotta contro questa idea di libertà condizionata, contro l’abuso di una obsoleta legge sul copyright come metodo per concentrare ricchezze in poche avide mani, come strumento di erosione continua di ciò che nasce e deve rimanere collettivo, accessibile, open.
Non è un caso infatti che a distanza di pochi giorni dalla tragedia, sulla rete fioriscano già le iniziative per celebrarlo, non limitandosi al ricordo, ma facendo in modo che la sua morte diventi uno stimolo ancora più forte a portare avanti le battaglie importanti, che furono anche le sue, in nome delle libertà di ciascuno di noi.
Anonymous, sul sito “defaced” del M.I.T., chiede a ragione, in una sorta di inconsueto appello,
“Che questa tragedia sia l’occasione per un ripensamento della legge sui crimini informatici e del rischio di abusi di procuratori troppo zelanti. che questa tragedia, ponga le premesse per una riforma della legge sul copyright e della proprietà intellettuale, riprendendo una direzione che guardi al principio del bene comune per molti, piuttosto che il guadagno privato dei pochi.
Che si ponga un freno all’oppressione e ingiustizia perpetrate da individui e istituzioni ai danni di chiunque osi opporsi allo stato attuale delle cose (...)
Che infine sia la base di una rinnovato e risoluto impegno per una rete libera e senza restrizioni, priva di censura e caratterizzata dall’uguaglianza accesso e di rappresentazione delle volontà di tutti.”
E’ in questo momento più che mai che occorre trovare unione e coerenza, è necessario che la cultura tutta si ponga ora, senza ambiguità, al di fuori delle logiche della proprietà, come nel caso dell’iniziativa spontanea su twitter #pdftribute, nella quale molti accademici e ricercatori di tutti i campi stanno rendendo pubblico, in segno di tributo, il link a migliaia di documenti scientifici coperti da copyright. E’ necessario che la ricerca porti avanti in maniera decisa quel processo che le open university (ironico che tra queste ci sia proprio il M.I.T.) hanno appena iniziato. E forse può essere l’unico modo per far si che una perdita così non sia solo il frutto della disperazione di un singolo isolato.
Andrea Mancianti