Patamu intervista Simone Nebbia, cantautore romano con una forte vocazione per la scrittura. Tra atmosfere acustiche e rock intimista ha da poco pubblicato il suo album.
Buongiorno Simone e benvenuto sul Blog di Patamu! Hai da poco pubblicato il tuo album. Raccontaci qualcosa su questa esperienza! Pubblicare un album ha due diverse motivazioni. La prima è tattica: c’è bisogno di uno strumento che permetta al cantautore, musicista, artista o come vogliamo chiamarlo, di poter concretamente proporre la propria musica in un contesto commerciale. Dunque se un tempo la pubblicazione di un album era il punto di arrivo a coronamento di una fortunata stagione di concerti, cioè di relazione con il pubblico, oggi si guarda più all’album come un tentativo di aumentare le economie scarse delle serate concerto, giacché non se ne vendono più in ambiti diversi dall’occasione del live. La seconda motivazione è fortunatamente intima: sono arrivato a pubblicare un album dopo tanti anni di musica, per la precisione oltre i 10 anni. Ma i brani del disco (9 su 10) sono tutti scritti nell’ultimo anno. Segno che il percorso decennale io lo percepisca come formativo e propedeutico a capire come dire cosa, quali argomenti sono per me urgenti, condensare uno stile riconoscibile che sia il mio e che ritengo indispensabile portare fuori di me. Oggi si pubblica a ripetizione e quasi mai con una reale urgenza di espressione. Purtroppo, poi, si vede. E si sente.
Nebbia è il tuo cognome, una parola che evoca inevitabilmente la difficoltà di capire quello che abbiamo intorno… L’album, invece, è senza titolo. Vuoi disorientare il pubblico? No, certo che no. Il mio cognome è mio e me lo porto appresso come un marchio anche sul piano dei significanti: nebbia è una condizione non di mancata chiarezza ma di attenuazione della visibilità cerebrale, perché se ne attivi una fatta di immaginazione, di emozioni. Ma non è il titolo dell’album. Ho cercato di fare un piccolo esperimento, capire se fossimo culturalmente pronti a che l’immagine avesse un proprio linguaggio, in grado di comunicare su un fronte di immediatezza. Quindi il titolo è la fotografia, quella foglia verde ed eretta pur deteriorata e pressoché morente, ritratta dalla fotografa Futura Tittaferrante. Ma l’incapacità di pronunciare quella immagine, renderla in una forma linguistica, riporta tutta l’attenzione sul nome dell’autore. E l’esperimento è, dunque, giustamente fallimentare.
Nonostante gli sviluppi della musica elettronica e digitale la dimensione acustica -e più intima della canzone- continua ad appassionare il pubblico. Tu come lo spieghi? Non lo spiego. Semmai lo vivo. E lo faccio perché quando ragioniamo in termini di tradizione non stiamo parlando di una roba vecchia, ma di qualcosa che resiste al tempo e anzi lo connota, lo definisce. Quindi non riesco a ragionare se non in termini di continuità: nel nostro paese la musica di tradizione è melodica e popolare, ha formato gli italiani in diversi strati sociali e in molti casi ha anzi annullato le differenze di classe. Quindi non può morire l’ascolto dei cantautori, riescono a rinnovare tematiche in cui chi ascolta si riconosce. E per ciò che riguarda il digitale, nulla può sostituirsi al dialogo diretto, quasi sussurrato, che si instaura in un live tra un cantautore e chi lo ascolta.
Che rapporto c’è, nel tuo album, fra testi e musica? Non ho mai sopportato tanto quel discorso tra l’uovo e la gallina che si usa per definire se abbia senso partire dal testo o dalla musica. Avverto come coesistenti entrambi, sono in compresenza per il semplice fatto che l’origine di un pezzo è per me un derivato esistenziale, a tavolino non mi ci metto. E allora se nasce qualcosa da dire nasce già in una forma melodica, che pian piano si assesta, si aggiusta, si definisce. Ma questo vale per me, non è una regola ovviamente. In più c’è da dire che non sono formato da musicista, ma ho studiato letteratura, scrivo prosa e svolgo una professione critica in ambito letterario e teatrale. Quindi sicuramente l’ago è spostato sul testo, almeno in una fase originaria. La musica è stata un mezzo, una necessità trovata per strada. Ma già ora è diverso e inizio a pensare in termini anche musicali.
In “Litoranea” e “La porta del mare” troviamo riferimenti a Roma. Come giudichi la scena musicale romana, e quanto ti ha ispirato nel comporre i testi la Città Eterna? Io sono nato e vivo a Roma, meglio ancora: vivo nello stesso quartiere dove sono nato. Da questa città non sono stato mai lontano per più di 23 giorni. Il fatto è che negli occhi credo si formi un immaginario derivato da ciò che quegli occhi abbiano visto. Roma è stata per me madre e sorella, ha risposto alle mie domande di bambino, di adolescente, mi accompagna in una maturazione adulta. Lei mi deve attenzione, io le devo ascolto. Quindi non è solo nelle canzoni citate, in quel caso ci sono riferimenti ma occasionali, legati al tema, al testo. Ciò che invece è forte è il riferimento intimo, quello che nessuno può vedere. Ti faccio un esempio tra i tanti. “Controvento”, canzone che poi è stata il singolo di apertura, inizia con “Il filo degli aquiloni non si vede da qua / s’impiglia nelle dita ai ragazzini taglia le case a metà”. E questa immagine solo una città di palazzoni come la mia Roma di periferia te la può suggerire, quella che Claudio Baglioni nel 1985 chiamava in “E adesso la pubblicità” una “città di antenne e cielo”.
Fra ricerca interiore e apertura verso l’esterno, quale aspetto credi caratterizzi di più i tuoi lavori? È difficile definire gli ingredienti di un’esperienza artistica, non si può rispondere se non fondendo l’uomo nella propria stessa arte. Credo con Josif Brodskij, grande poeta russo che ebbe il Premio Nobel nel 1987, che lo scrittore abbia come vocazione, come missione, quella di interpretare mondo, di ricercare significato. È un dono, perché sa farlo anche per altri, ha la sensibilità per questo, ma è insieme anche una condanna perché è costretto a farlo per tutta la vita. Quindi non è possibile secondo me separare l’immensità intima dalla vastità cui può giungere un messaggio, è necessario il tramite, l’artista, senza cui nessun passaggio della filiera ha senso.
Sei un ragazzo degli anni ’80. Che rapporto hai con la tecnologia ed il mondo digitale? La tecnologia sta mutando la qualità di come si sta al mondo. Parole come amicizia, interazione, relazione, condivisione, piacere, hanno visto sovvertito il loro significato primario. Ciò accade perché non abbiamo dedicato attenzione al fatto che un mezzo dovesse rimanere tale e non diventare un motivo. Quindi da strumento di azione qual era si è fatto origine di pensiero. Ora si pensa direttamente in un formato digitale, chi non lo fa è fuori dal mondo, fatica a restarci attaccato, deve definirsi un esule. Ma io credo fortemente nella qualità della relazione, come già ti dicevo nella prima risposta, quindi credo che da questo errore estremo l’umanità saprà imparare a proprie spese e riequilibrare un sistema ora inaffidabile, falsato, velocizzato in una dimensione antiumana. È lo spirito degli uomini quello di mettersi in difficoltà e saper riemergere, seguendo cicli eterni che alle epoche preesistono. Quindi ce la faremo, anche stavolta, a fare una rivoluzione digitale verso l’esatto contrario. E tornare umani.