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Come me e molti altri milioni di bambini in tutto il mondo (o quasi), Kristian von Bengtson e Peter Madsen hanno sognato di fare l’astronauta. Come a me e ai molti altri bambini coinvolti nel mio stesso sogno, a un certo punto però qualcuno ha detto, cercando di usare un certo tatto, che l’astronauta non è davvero un lavoro che fanno le persone comuni e così entrambi hanno considerato opportuno ripiegare su professioni più normali come l’architetto aerospaziale e l’inventore.

Il primo dei due si è dedicato a disegnare gli alloggiamenti delle capsule spaziali ed è stato parte del team tecnico per diverse missioni NASA negli Stati Uniti, il secondo, dopo aver fatto l’artista, tra le molte cose ha progettato e costruito diversi sottomarini “fatti in casa”.
Qualche anno fa, inaspettatamente per entrambi, i due bambini che volevano fare gli astronauti si sono incontrati e hanno deciso di tornare al loro sogno originale e di mettere in piedi la prima missione spaziale amatoriale e autofinanziata, la Copenhagen Suborbitals.

Perché mai, vi chiederete voi miei piccoli lettori, stiamo parlando di una sconclusionata missione spaziale in un blog che si occupa di open access e cultura libera?
Perché il progetto, sviluppato in ormai cinque anni di esperimenti, lanci test (il prossimo previsto per il 22-23 giugno 2013) e un numero sempre crecente di collaboratori, è imperniato su alcuni concetti, portati avanti con grande chiarezza, che mi sembrano emblematici di molte delle cose in cui credo:

1. Semplicità disarmante: il livello di complessità delle missioni aerospaziali governative significa, per la scala a cui possono e vogliono lavorare alla Copenhagen Suborbitals, moltiplicare esponenzialmente il rischio di un malfunzionamento, quindi la semplicità del progetto è la chiave di volta.

2. Economicità e reperibilità: I materiali devono essere economici, di facile reperimento e assolutamente ordinari, nonchè in gran parte riciclabili nelle varie fasi della missione, stesso criterio per gli strumenti impiegati nella realizzazione.

3. Condivisione e riproducibilità: Il pregetto deve essere, nelle intenzioni dei due fondatori, ripetibile “virtualmente” da chiunque. Ogni aspetto, dai prospetti tecnici, agli schizzi preparatori, ai materiali per la comunicazione sul sito ufficiale, deve essere no profit e open source.

Come recita la loro mission:

“Il progetto è sia open source che no-profit al fine di ispirare più persone possibile, così da coinvolgere partner di rilievo e le loro competenze.
Il nostro obiettivo è mostrare al mondo che il volo spaziale umano può essere diverso dai soliti costosissimi progetti degli enti controllati dai governo.” *

Sotto lo stemma del progetto, che ricorda più un sigillo regale che il logo di un ente spaziale, si legge in un maccheronico latino, a suggello delle intenzioni: “Non Lucror - Esposita Scientia”.

Questo estrema scommessa, specialmente stando ancora in piedi, più forte ancora dopo diversi anni, a mio avviso prova un punto e lo fa senza polemica. Che le competenze incredibili necessarie alla realizzazione di un’impresa del genere, solitamente immobilizzate dentro strutture con budget mastodontici, possono e devono essere il più possibile rimesse in gioco, a disposizione di quei progetti "open" che si pongono come unico obiettivo l’accrescimento della conoscenza per tutti, al di la della realizzazione di un utile o di una ricaduta militare, economica o politica. Non ci sono strutture istituzionali a investire milioni in Copenhagen Suborbitals, che al contrario è un incontro metafisico tra una ciclofficina popolare e un cenacolo di esperti di ingegneria aerospaziale. Al contrario di quello che accade dentro i corrispondenti enti a fini di lucro, dove i brevetti tecnologici servono all’industria per giustificare investimenti milionari facendo di segretezza e divisione compartimentata delle competenze pilastri del modus operandi, qui l’entusiasmo e l’assoluta assenza di vincoli di proprietà intellettuale, hanno invece mobilitato numerosi professionisti, così come semplici appassionati, ansiosi di dare il loro contributo, ciascuno nel proprio campo ma pronti ad imparare e sperimentarne altri, mettendo in comune le proprie competenze gratuitamente al servizio della causa.

Che in ultima analisi significa regalare la tecnologia aerospaziale (per ora almeno quel pezzetto che riguarda fugaci viaggi di un passeggero solo in veicoli con triettoria suborbitale) in scatola di montaggio all’umanità intera. E questo non mi pare per nulla poco.

* traduzione approssimativa di chi scrive, l’orginale è:
The project is both open source and non-profit in order to inspire as many people as possible, and to envolve relevant partners and their expertise.
We aim to show the world that human space flight can be different from the usual expensive and government controlled project.

 

 

 

Pubblicato in Uno sguardo all'Europa