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Sabato, 18 Aprile 2015 03:47

Open Intelligence o l'eleganza del verme

L'intelligenza artificiale potrebbe non essere ancora dietro l'angolo, ma sicuramente enormi passi avanti sono stati fatti nella sua direzione. La tematica è affascinante per definizione e solletica appetiti e fantasie di ogni genere e tipo. Se avete qualche minuto libero e un po' di voglia di saperne qualcosa in più, questo articolo è un eccellente riepilogo delle diverse posizioni di studiosi e scienziati sulla questione e dell'importanza che questo processo avrà (o potrebbe avere) nei prossimi anni. Nell'attesa di essere spazzati via dalla faccia della terra da un'umana creatura superintelligente e iper-razionale, però, vi raccontiamo di un'interessante ricerca indipendente, condotta in maniera open source da un variegato team di scienziati di tutto il mondo, che ha come oggetto un'intelligenza parecchio meno minacciosa, ma non per questo meno affascinante.

Alla fine del 2001 un team di ricerca, coordinato da Stephen Larson e in quattro anni arrivato a superare l'impressionante numero di sessanta ricercatori da quindici paesi diversi, decide di mettere in pratica una simulazione software del sistema neuronale di un piccolo verme, il C. elegans, studiatissimo già da molto tempo e dotato di un sistema neuronale di appena 302 neuroni per un totale di 959 cellule.
Il progetto, chiamato appropriatamente Open Worm, prevede la realizzazione di una simulazione software del comportamento di un neurone e la costruzione di una rete di connessione che simuli, nella maniera più accurata possibile, il cosiddetto connettoma, ovvero della mappa delle connessioni neurali in un cervello, con l'auspicio che questo produca un “verme-pensiero” sufficientemente credibile. I dati sono basati sul lavoro, anch'esso interamente Open, del progetto trans-disciplinare open-connectome, che coinvolge ricercatori da diverse università del mondo e si propone come una sorta di elemento unificante per le ricerche attorno a questa affascinante branca delle neuroscienze e che ospita l'intero connettoma del C. elegans.

Secondo quanto affermato dallo stesso Larson, la chiave del progetto è stata la sua apertura, che ha consentito una grande velocità di sviluppo e una partecipazione libera di una grande numero di scienziati e appassionati e il carattere delle collaborazioni “a sciame” (swarm) che ha consentito una grande plasticità organizzativa. La ricerca è costantemente in movimento, tra i diversi settori coinvolti, con biologi, programmatori e quant'altro in perenne contatto via google hangouts da ogni angolo del pianeta. In questi quattro anni di vita sono stati prodotti diverse varianti del modello, con le singole parti (movimento, sensi ecc) in continuo processo di miglioramento.

Una della implementazioni del modello di questo piccolo nematode ha persino già visto nascere, tra le pieghe del progetto, una versione meccanica “vivente”. Un modello di rete neurale è stato "uploadato" e fatto funzionare in un piccolo robot fatto di lego, con sensori ed attuatori in qualche modo, con un po' di fantasia, paragonabili a quelli di un vero verme.
La cosa sorprendente è che nonostante il piccolo robot non somigli affatto al suo ispiratore, (è una scatoletta di lego con le ruote e una sorta di collo/naso sensore), le ricerche sembrerebbero indicare una similitudine nel comportamento del robot al suo corrispettivo biologico, in relazione alla risposta agli impulsi esterni, al suo comportamento in presenza di ostacoli e così via, come è possibile vedere in questo video, non esattamente eccitante, ma pur sempre suggestivo. La cosa davvero sorprendente è che, al contrario di ciò che si è per lo più fatto finora in robotica, dove il programma, per così dire, precede concettualmente la sua esecuzione meccanica, qui i ricercatori non hanno programmato alcuna istruzione all'interno del “cervello” del robot. Hanno utilizzato, al contrario un approccio cosiddetto bottom-up, secondo il quale una determinata configurazione fisica delle varie sinapsi di un cervello, determinerebbe un determinato tipo di risposta neurale e di conseguenza un dato comportamento. Questo quindi, non sarebbe un'istruzione precompilata, ma una caratteristica “emergente” dovuta al tipo di relazioni possibili in una data configurazione fisica. Siamo ancora lontani da un modello sufficientemente prossimo alla realtà, ma il progetto è estremamente promettente e il suo respiro collaborativo, trans-disciplinare ed open source lo rende decisamente interessante, perché sempre di più la scienza sembra voler (e poter) abbandonare le rigide strutture chiuse, diventando davvero territorio di avanzamento comune.

Lavorare a progetti del genere attraverso modalità open source non soltanto consente l'accesso ad un rapidissimo canale di scambio di competenze e informazioni, al di la di logiche direttamente connesse al profitto, e quindi consentendo un avanzamento più rapido della conoscenza, ma consentirebbe anche una maggiore capacità di controllo incrociato sull'intero processo, riducendo di molto la probabilità che errori inosservati si nascondano tra le pieghe del lavoro.

Pubblicato in Uno sguardo all'Europa

Come me e molti altri milioni di bambini in tutto il mondo (o quasi), Kristian von Bengtson e Peter Madsen hanno sognato di fare l’astronauta. Come a me e ai molti altri bambini coinvolti nel mio stesso sogno, a un certo punto però qualcuno ha detto, cercando di usare un certo tatto, che l’astronauta non è davvero un lavoro che fanno le persone comuni e così entrambi hanno considerato opportuno ripiegare su professioni più normali come l’architetto aerospaziale e l’inventore.

Il primo dei due si è dedicato a disegnare gli alloggiamenti delle capsule spaziali ed è stato parte del team tecnico per diverse missioni NASA negli Stati Uniti, il secondo, dopo aver fatto l’artista, tra le molte cose ha progettato e costruito diversi sottomarini “fatti in casa”.
Qualche anno fa, inaspettatamente per entrambi, i due bambini che volevano fare gli astronauti si sono incontrati e hanno deciso di tornare al loro sogno originale e di mettere in piedi la prima missione spaziale amatoriale e autofinanziata, la Copenhagen Suborbitals.

Perché mai, vi chiederete voi miei piccoli lettori, stiamo parlando di una sconclusionata missione spaziale in un blog che si occupa di open access e cultura libera?
Perché il progetto, sviluppato in ormai cinque anni di esperimenti, lanci test (il prossimo previsto per il 22-23 giugno 2013) e un numero sempre crecente di collaboratori, è imperniato su alcuni concetti, portati avanti con grande chiarezza, che mi sembrano emblematici di molte delle cose in cui credo:

1. Semplicità disarmante: il livello di complessità delle missioni aerospaziali governative significa, per la scala a cui possono e vogliono lavorare alla Copenhagen Suborbitals, moltiplicare esponenzialmente il rischio di un malfunzionamento, quindi la semplicità del progetto è la chiave di volta.

2. Economicità e reperibilità: I materiali devono essere economici, di facile reperimento e assolutamente ordinari, nonchè in gran parte riciclabili nelle varie fasi della missione, stesso criterio per gli strumenti impiegati nella realizzazione.

3. Condivisione e riproducibilità: Il pregetto deve essere, nelle intenzioni dei due fondatori, ripetibile “virtualmente” da chiunque. Ogni aspetto, dai prospetti tecnici, agli schizzi preparatori, ai materiali per la comunicazione sul sito ufficiale, deve essere no profit e open source.

Come recita la loro mission:

“Il progetto è sia open source che no-profit al fine di ispirare più persone possibile, così da coinvolgere partner di rilievo e le loro competenze.
Il nostro obiettivo è mostrare al mondo che il volo spaziale umano può essere diverso dai soliti costosissimi progetti degli enti controllati dai governo.” *

Sotto lo stemma del progetto, che ricorda più un sigillo regale che il logo di un ente spaziale, si legge in un maccheronico latino, a suggello delle intenzioni: “Non Lucror - Esposita Scientia”.

Questo estrema scommessa, specialmente stando ancora in piedi, più forte ancora dopo diversi anni, a mio avviso prova un punto e lo fa senza polemica. Che le competenze incredibili necessarie alla realizzazione di un’impresa del genere, solitamente immobilizzate dentro strutture con budget mastodontici, possono e devono essere il più possibile rimesse in gioco, a disposizione di quei progetti "open" che si pongono come unico obiettivo l’accrescimento della conoscenza per tutti, al di la della realizzazione di un utile o di una ricaduta militare, economica o politica. Non ci sono strutture istituzionali a investire milioni in Copenhagen Suborbitals, che al contrario è un incontro metafisico tra una ciclofficina popolare e un cenacolo di esperti di ingegneria aerospaziale. Al contrario di quello che accade dentro i corrispondenti enti a fini di lucro, dove i brevetti tecnologici servono all’industria per giustificare investimenti milionari facendo di segretezza e divisione compartimentata delle competenze pilastri del modus operandi, qui l’entusiasmo e l’assoluta assenza di vincoli di proprietà intellettuale, hanno invece mobilitato numerosi professionisti, così come semplici appassionati, ansiosi di dare il loro contributo, ciascuno nel proprio campo ma pronti ad imparare e sperimentarne altri, mettendo in comune le proprie competenze gratuitamente al servizio della causa.

Che in ultima analisi significa regalare la tecnologia aerospaziale (per ora almeno quel pezzetto che riguarda fugaci viaggi di un passeggero solo in veicoli con triettoria suborbitale) in scatola di montaggio all’umanità intera. E questo non mi pare per nulla poco.

* traduzione approssimativa di chi scrive, l’orginale è:
The project is both open source and non-profit in order to inspire as many people as possible, and to envolve relevant partners and their expertise.
We aim to show the world that human space flight can be different from the usual expensive and government controlled project.

 

 

 

Pubblicato in Uno sguardo all'Europa